Viticoltura Eroica
La storicità, il forte radicamento con la propria terra e i suoi abitanti, fanno del vitigno del Pecorino un compagno di viaggio. Vorrei contestualizzarne la sua coltivazione nel tempo, partendo dai suoi albori fino ad oggi e mettere a confronto la sua coltivazione con la trasformazione del territorio e del paesaggio.
Diverse sono state le metodologie di coltivazione che si sono susseguite attraverso i secoli passati. All’inizio del secondo millennio la coltivazione prevalente era della tipologia denominata “Conocchia”, tre canne poste a capanna e le viti arrotolate attorno ad esse. Era prevalentemente una coltivazione di sussistenza, realizzata vicino alla propria dimora, con quantitativi d'uva minimi. L’ambiente circostante si presentava particolarmente boscoso ed impervio e la necessità prevalente era avere terreni a disposizione per il pascolo e per la coltura dei cereali. Era un vino strettamente legato alle specificità del territorio, estremo, ma ebbe inizio una dedizione ad esso mai sopita.
I frati Benedettini prima e Francescani poi cercarono un modello territoriale di coltivazione dei diversi prodotti locali, certo si imbatterono nel complesso mondo della montagna ma diedero inizio ad un progetto ancora attuale. Il territorio oltre i 1200 metri s.l.m. fù lasciato al pascolo degli animali, spazzi enormi sotto Pizzo di Sevo, Monte Vettore e Forca Canapine, fino al piano di Norcia, da sempre antagonista. La Transumanza non è stata mai usuale ad Arquata del Tronto perché di territorio da dedicare al pascolo ce n’era in abbondanza.
Più in basso iniziò la sostituzione del bosco con i Castagni, nelle zone più scoscese o orientate a nord, cercando di ricavare nelle parti più esposte al soleggiamento, terreni liberi da dedicare alle diverse tipologie di coltivazione di sussistenza, in prevalenza cereali.
Quello che sorprende, a differenza di altre realtà limitrofe, è che nelle vicinanze dei centri abitati i terreni ricavati per allontanare il bosco dal centro abitato non furono lasciati esclusivamente per orti o coltivazioni varie ma progressivamente vitati a filare. Il legno del Castagno si adattava perfettamente, pali e traverse, a resistere al peso della neve. Le viti non avrebbero più rischiato di spezzarsi e la struttura sarebbe rimasta in opera per anni. È proprio partendo da queste riflessioni che possiamo intuire la dovizia verso il Pecorino inteso come Vino. Una viticoltura specializzata dove i filari si affiancavano ai paesi, fino a raggiungere a metà del XIX secolo, secondo il Catasto Gregoriano, circa 130 ettari di suolo Comunale.
Questa caratteristica differenzia la coltivazione della vite ad Arquata del Tronto con i territori montani del circondario. In questi ultimi la viticoltura fù relegata ai terreni marginali e si preferì adibire quelli ubicati nelle adiacenze dei centri abitati alle coltivazioni più usuali al sostentamento.
La viticoltura era così radicata nella vita paesana tanto da essere l'attività lavorativa prevalente per le capacità tecniche riconosciute in tutto il Centro Italia. In "Relazione Bonucci" del 1781 su Arquata del Tronto di Angelo Bonucci, cita:
"Commercio del luogo e suo impedimento. Due generi sono quelli, che costituiscono il Commercio del Paese: Vino e Castagne: Le castagne si portano nell'Ascolano e Norcino, il Vino nel Regno."
"Gli abitanti..... per vivere, in tre stagioni dell'anno accedono alle maremme, ad alla Coltivazione delle Vigne del Lazio, e questa è la Professione commune, altri s'impiegano nell'arte dè Bottari."
Sarà l’arrivo del Regno d’Italia a segnare l’inizio dello spopolamento montano e la fine dell’equilibrio creatosi tra natura e uomo durato per secoli. I piccoli coltivatori locali si opposero fermamente al nuovo evento, forse sostenuti dai frati Francescani del Convento di Borgo. Nei fatti, il Monastero fù chiuso e ceduto in possesso al nuovo Comune filonazionale ed i frati Francescani mandati altrove.
Certo non penso che l’attività vitivinicola ad Arquata sia stata relegata a regole o modelli predefiniti dai manuali dei Monaci, ma certamente ogni pietra potrebbe raccontarci della loro tenacia e passione per questo vitigno.
L’abbandono della montagna ha segnato in negativo le diverse colture agricole locali, bisognose di attenzione e cura costanti e quel vitigno, fuori dal comune non si nutre oggi solo di immaginario. Si è rotto il centenario equilibrio tra uomo ed ambiente ed il terremoto del 24 agosto 2016 non ha fatto altro che peggiorare la situazione.
I racconti dei nonni e dei padri ci hanno tramandato quel modo consueto di coltivare la vite qui, è il filo conduttore che ci lega al passato e ci fa guardare al futuro con speranza di rinascita.
Mio padre, alla maniera antica, usa ancora realizzare l’orto tra i filari di vite. Racconta come la vite vada sempre custodita e l’orto in mezzo fa si che la si zappi più spesso con la frequenza delle colture dell’orto.
Ho avuto modo di toccare con mano le prove di coraggio degli abitanti di questa terra e stimato la dedizione per il proprio lavoro di mio padre, a volte con picchi
di straordinaria follia. Testimone di questo itinerario storico e della fragilità del territorio, tra paesaggi mozzafiato, si impegna ancora oggi nel
recupero delle vigne più vecchie, hanno secoli addosso e molte delle quali avvolte tra i rovi a prima vista irrecuperabili, ma sanno donarci gusti e sapori unici. Un'eterna lotta a fronteggiare e
resistere all'avanzata dell'impervia naturalità. Dobbiamo andare avanti mi dice anche con i dolori del tempo e non solo, occorre: " tirà annanzi".
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Alighiero Tozzi (venerdì, 31 maggio 2024 13:21)
Ciao, ho letto il bell'articolo e volevo chiedere se avete notizia di coltivazioni di segale, nel territorio di Arquata, e se, nel caso affermativo, la segale venisse anche usata nell'alimentazione degli arquatani.
Vino pecorino (venerdì, 31 maggio 2024 18:28)
Ciao Alighiero, non ho citazioni storiche al riguardo, cerco di trovarne. A presto
Alighiero Tozzi (venerdì, 31 maggio 2024 21:12)
Grazie
Vino pecorino (sabato, 01 giugno 2024 13:48)
Di seguito Alighiero un intervista a mia padre penso del 2017….sr può esserti utile e memoria locale….
La domanda frequente è: Ma di cosa vivevano nel passato in questi luoghi montani?
Fonte
Arnaldo Eupizi e http://www.anthroposweb.com/?page_id=5249
La maggiore difficoltà risulta essere quella d’individuare ed elencare prodotti ortofrutticoli ormai in disuso o dal suono puramente dialettale. Ogni paese arquatano, anche se piccolo aveva le proprie declinazioni, o addirittura, un prodotto acquisiva il nome del padrone dell’orto dov’era coltivato o, un nome fantasioso si sedimentava e consolidava con il trascorrere del tempo. Il Marzolo, varietà cerealicola, era chiamato Marzuolo nella zona di Colle e Spelonga, Marzone o Marzò nella zona di Borgo, Arquata, Camartina. Simile al grano ma di minor dimensione era utilizzato come caffè, si tostava con un contenitore apposito posto sul fuoco e si usava come l’odierno caffe d’orzo da moka. Così importante la sua coltivazione da dare il nome ad una località, Marzulì, sopra il vecchio forno d’Arquata. Lo stesso uso l’aveva l’orzo perlato, non saprei dire la motivazione discrezionale che spingeva alla coltivazione di uno delle due qualità. Una distinzione della nomea la troviamo rimarcata tra i diversi versanti dei Monti della Laga e dei Monti Sibillini confinanti. L’orzetta, cereale simile all’orzo, era nome comune nel versante della Laga e orzo maschio, nome tipico nel versante dei Sibillini, molto utilizzato per l’alimentazione animale, in particolar modo per i maiali. Altre sementi antiche tipiche erano, il grano, la lenticchia, i mochi o muchi e i farchi, simili ai piselli avevano dei bellissimi fiori bianchi, era usuale seminarli per gli animali da cortile in genere, piccioni, galline e pecore. In alcune località della zona i farchi, per fame, erano usati anche per l’alimentazione umana, nelle minestre. La roveglia, reveja o rovegna era usuale nella località Da Monte, le terre alte della Camartina, sopra la Rocca d’Arquata . Seme schiacciato si piantava a primavera e si raccoglieva a agosto, si utilizzava come i fagioli. Il farro, cicerchia, lenticchia, la segale, la canapa. Si coltivava il grano romanino e farneto, nome forse legato alla località di coltivazione, Farrneto o Farenite sopra la località di Trisungo. Tipico era anche l’utilizzo per fini salutistici dei prodotti locali, l’orzo perlato ad esempio era preso quando si stava male, male in genere suppongo, malanni tipi quali raffreddore o febbre. Era una delle medicine del tempo, si metteva a bollire e poi se ne beveva l’acqua, molto rinfrescante. Lo stesso vale per il lino, coltivato insieme alla canapa per la lavorazione simile, era utilissimo per gli impacchi. Si facevano bollire i semi assieme ai semi di senape e imbevuta una pezza di lana era utile per fare gli impacchi o impiastri, posandola sul petto per curare la bronchite e la polmonite o per i dolori reumatici in genere. Posso supporre che la discrezionalità nella scelta del tipo di coltivazione fosse dovuto anche all’uso terapeuto del prodotto. Si mangiavano anche i grugnali o bacche di corniolo, pianta selvatica dal sapore aspro simile all’oliva ma di colore rosso, simile alla strozzacaina o bacche di rosacanina. Di fagioli ce n’erano di tante qualità, di solito si seminavano a primavera, ad esempio i fagioli dall’occhio nero chiamate le monachelle, ma soprattutti il fagiolone bianco o fagiolone della Pescara, nome legato alla località dove era più usuale la coltivazione, Pescara del Tronto, prevaleva sugli altri per qualità, gusto e tradizione. La lavorazione cerealicola avveniva nell’ara, il terreno di famiglia lastricato di schiazze di pietra serena. Occorreva non avere sprechi, ogni chicco era prezioso, ed il metodo antico per isolare o sigillare il selciato consisteva nello spargere acqua e letame premiscelate tra loro su tutto lo spazio prima della battitura.
Anche di frutti era ricchissima la zona, le pesce maturavano insieme all’uva in settembre, la scopperella e la genovese. Le prugne, la verdacchia, la chiappa de monaca, la prugna a piricoca o piricocca o pernicù e le rusciole. I fichi, i fellacciani erano neri e i più comuni perché carnosi e dolcissimi. Tra le varietà di ciliege, le biancole, le primacciole si maturavano prima delle altre nel mese di maggio, le marasche e quelle selvatiche. Le Pere, la pera della fiera si maturava alla fine d’aprile, la spatona, la pera a campana, le pere piccole di San Giovanni erano dette anche le pere mezze e si mangiavano il giorno di San Giovann a giugno. C’era anche una varietà di pere invernali che chiamavano, le pere di Cucchiarò perchè l’albero era confinato a Trisungo nell’orto di famiglia, I Cucchiaroni.
Alighiero Tozzi (sabato, 08 giugno 2024 12:20)
Molto interessante, tuo padre menziona anche la segale, cereale adatto ai luoghi montani dove il grano con il raccolto raramente superava il doppio del seminato. Oltretutto, non ricordo bene dove, lessi delle difficili condizioni alimentari delle popolazioni dei Sibillini in epoca più antica. La segale in Arquata mi interessa per una mia ricerca volta a spiegare un certo fatto per la mia pagina "Quando c'era Arquata"
Grazie per l'interessamento.